Lodovico Meneghetti
Scritti su Dady Orsi

- Dady Orsi (1984) veduta di Bonassola
A primavera del 1972 Angioletta e io cominciammo a occuparci del restauro di un’antica casa acquistata nella località Costella del comune di Bonassola. La piccola frazione presentava un aggregato di vecchi edifici, lineare, rispettoso delle curve di livello: qualcuno ancora abitato da famiglie originarie del posto, altri abbandonati, uno, addossato al nostro verso ponente e ugualmente in posizione spettacolare a 125 metri sul mare, occupato da una famigliola di … pionieri milanesi. Erano Edoardo (Dady) Orsi, sua moglie Maria Grazia Bassi e il figlio Cosma, un ragazzino scolaro della prima classe elementare. Terminati i lavori a dicembre, inaugurammo la casa a Natale. Nacque un’amicizia coltivata giorno per giorno durante le vacanze estive e vissuta a Milano, con frequenti incontri nelle nostre abitazioni, nelle gallerie d’arte, nelle serate in casa Orsi aperte anche agli amici. Così le nostre esperienze divennero ragione di racconti che saldarono i fili vitali di un prima e un dopo, per ottenerne uno solo come il «filo forte» delle cuciture d’altri tempi. Qui di seguito raccolgo alcuni brevi scritti sull’arte di Dady Orsi
Lo spazio naturale



Un caso in cui il progetto del quadro contiene una intenzionalità molto elevata, quasi una provocazione. Il procedimento per realizzarlo è così definito, controllato come il funzionamento di un delicato apparecchio, da diminuire decisamente i pericoli di cui è disseminata la strada verso la rappresentazione finale: appaiono questi gli essenziali atti materiali conclusivi di un operazione in realtà ricca di aspetti spirituali e intellettivi, svolti riportando in superfice uno strato profondo della propria memoria, liberando i recessi della propria cultura artistica accumulata in decenni di esperienza, insomma dicendo la verità, se così posso esprimermi, a sé e agli altri.
In questo senso, il ritrovamento in certi paesaggi di Matisse di inizio secolo, e l’impiego quale materia basilare dell’impasto progettuale, di particolari, di embrioni pittorici evidentemente dotati, per il pittore-ricercatore, di inapparenti forme-forze misteriosamente compresse che egli vuol far dispiegare in un campo di forme e significato del tutto suoi. Non possono essere fraintesi come un puro gioco, o un esercizio mirabile e rischioso, ma, in fondo non troppo difficile, per chi è sempre stato abile nel muoversi fra una rete di consapevoli citazioni. Invece traspare come un sentimento di umiltà acquisita attraverso una maturazione e semplificazione di tutta la propria complicata dotazione di desideri e rimpianti da un lato, di capacità e limiti dall’altro; e traduce nello stesso tempo, legittimata da quel processo veritiero, una volontà di sperimentare, cioè di non fermarsi definitivamente ad una meta ma di proseguire il cammino. Una decisione tanto più efficace quanto più al di fuori di ogni incredibile ed impossibile neo-avanguardismo e, necessariamente, nutrita dalle più lontane radici.
- Dady Orsi (1984) spazio naturale III
- Dady Orsi (1984) spazio naturale VI
- Henri Matisse (1906) paesaggio
Alla fine, contano i risultati, i quadri così come sono, come li osserviamo uno per uno e specialmente in questo caso, data la fortissima unità, anzi ri-applicazione esatta della modalità progettuale ed esecutiva, nel loro insieme, quasi fossero un unico grande dipinto pieno (a sua volta!) di ‘particolari’ molto espressivi in sé e totalmente coerenti.
Saranno i critici a dire parole più appropriate e convincenti (con il loro linguaggio e stile) nell’esame circostanziato (e circospetto) di questa opera, magari raccontando di popperiane falsificazioni. Io credo di avere agevolmente recepito il senso complessivo, vale a dire significato e direzione, di questa astrazione pittorica. Così ho cercato di spiegarlo. Ora invito l’osservatore non solo a guardare i quadri, a vederli ognuno nella vistosa manifestazione delle forme, dei colori, della materia, e nell’intrinseca qualità della pennellata contamente ricordando le fonti; ma a sentirsi dentro ad ognuno di essi e circondati, come imprigionati da tutti. Si godrà dell’essenza di questa costruzione, di questo “paesaggio”: uno spazio che si espande in ogni senso da un piccolo grumo originario (lo spunto matissiano); uno scavo (come sempre durante tutto il corso storico delle arti) nella realtà presente e della memoria, per rappresentare una propria nuova realtà, dunque uno spazio, una natura naturale o umanizzata, proposti senza l’ombra di verità naturalistiche, un reale spazio naturale.
(Tuttavia, in quest’opera di Dady Orsi c’è anche il gusto del gioco, non tanto, o non solo, nel significato di divertimento e di conseguente appagamento, piuttosto in quello di contesa, una contesa orgogliosa e lecita con la grande pittura).
In occasione della mostra omonima
Galleria Schubert Milano 1984

- Dady Orsi (1984) Uliveto a Bonassola
Vetri dipinti

- Dady Orsi (1980) ciottolo
I dipinti storici su vetro che ricordo guardando quelli di Dady Orsi appartengono a una cultura popolare diffusa in Italia nei secoli XVII, XVIII, XIX, nel Veneto, in Toscana, in Puglia, in Sicilia… e in altre regioni europee, rumene, armene, ungheresi … Arte da non assimilare alla pittura su lastre irregolari legate a piombo per costruire vetrate nelle chiese, una lunga storia europea dal Medioevo fino alle soglie della modernità. Furono invece artisti cresciuti localmente a produrre quadri su lastre di vetro regolari nel formato (sul retro, naturalmente) mai di grandi dimensioni, nell’andare per campagne e piccole città a offrire la propria abilità di rappresentare storie sacre e civili: per lo più in maniera semplice, con personaggi ben delineati in una scena senza troppi elementi secondari.
Con la sua dote manuale Dady poteva ottenere composizioni ricche di particolari anche minuziosi, che l’osservatore può godersi se esamina l’opera attentamente.
Chi ha conosciuto l’assidua diversificazione nel suo lavoro sa a quale scomparto prezioso dell’intero archivio dell’artista appartengono i dipinti su vetro. Avvertivo che egli attribuiva loro uno speciale valore.
Osservandoli oggi sentiamo che li ha realizzati con particolare delicatezza di mente e di cuore, un amore una cura, da artista e da artigiano, che affondano le radici nell’esperienza dell’arte colta e dell’arte popolare insieme. Le tensioni del confronto fra quadro e miniatura impegnano al meglio le risorse dell’intreccio fra modernità e tradizione, ossia fra presente e storia. Un’occasione rara poter gustare, oggi, mentre domina il consumismo anche nel mondo dell’arte, opere come queste. La loro dimensione, inerente alla loro natura più intima, ne esalta il pregio anche perché sembra volersi opporre consapevolmente all’arroganza del mercato e dei mercanti.
Presentazione della mostra omonima Galleria Lilluccia (Bonassola 1987)
Il pictor e l’artifex : la creatività di dady orsi tra lavoro culturale e artigianto


- Torchio settecentesco appartenuto a Dady Orsi
- Dady Orsi (1981) acquaforte con nudo femminile
Dedicandosi totalmente al disegno, alla grafica, alla pittura (e talvolta alla scultura) per conquistare la vetta dell’arte dopo la notevole produzione nel campo della pubblicità e della forma applicata, Orsi ha dovuto ritrovare le proprie radici, la linfa ancora densa di intima umanità, intanto che lo studioso era quanto mai dedito a riconoscere l’esperienza commotiva e pedagogica di tutta l’arte.
Ho potuto seguire e comprendere come Dady, uomo maturo e colto, riportasse in superficie gli strati profondi della memoria, liberasse i recessi della propria conoscenza artistica accumulata, mostrasse le risorse dell’intreccio (le tensioni) fra tradizione e modernità, cioè fra storia e presente.
L’artista riconosciuto potrà accettare, come in antico, la commessa, anche a soggetto obbligato, oppure procederà per auto-commessa, oppure dovrà confrontarsi direttamente con la realtà o col mito: ad ogni modo non sarà mai menzognero. Dicendo la verità a sé e agli altri sarà sempre libero. Quanta «arte» mente oggigiorno? Quanto mente l’autore che, trovata in condivisione col mercante una maniera redditizia (non solo in senso economico), fuor della ragione profonda della ricerca artistica, la ripropone continuamente fino al decisivo calo del diagramma produttivo, ugualmente a un oggetto “usa e getta”?
Questa era la nostra convinzione allo scordio del secolo quando avemmo diverse occasioni di discorrere sull’effettivo stato dell’arte, ormai quasi soltanto un insieme di mercati specializzati. Oggi potremmo affermare entrambi che poco o niente, dal punto di vista delle istituzioni, delle gallerie, delle scuole, delle accademie si salva. Le gallerie private (di successo) vantano la signoria della compravendita, il resto è quantomeno disarmato, soprattutto è succube, non ha reagito all’appropriazione esclusiva. L’educazione artistica dei giovani è insufficiente o si è ritorta attorno all’albero della moda, che peraltro sta disseccandosi nonostante il puntello dei più potenti organismi economici internazionali.
Eppure, Dady, personaggio partecipe della scelta gramsciana («pessimismo della ragione, ottimismo della volontà») avrebbe probabilmente enunciato fiducia nel superamento dell’imbarbarimento dei tempi attuali. Un amico scultore, forte oppositore alla resa davanti alla crisi dell’arte, negando il detto di Arturo Martini «scultura lingua morta», mi assicura che dell’ideale artistico e delle risorse ci sarebbero mille embrioni nascosti in strati sociali mai stati destinatari di discorsi e opere artistici: potrebbero svilupparsi, potrà nascere un nuovo dialogo avulso dal gioco penoso fra due parti, quella speculativa e quella di coloro che vi si adeguano per loro precipui
interessi.
Pictor optimus fu De Chirico. A Dady Orsi ho accostato sia Pictor che
Artifex, nondimeno è il secondo termine che definisce al meglio la sua personalità. Per gli antichi non esisteva una differenza netta fra i compiti dell’artista e dell’artigiano. E il nostro fu davvero esempio di simbiosi fra i due mestieri. La cura posta nella preparazione e nell’esecuzione di opere appartenenti a diverse classi proveniva dalla prodigiosa competenza e manualità artigianali. Rimando di nuovo ai vetri dipinti secondo la tecnica dei pittori popolari girovaghi per chiese, e, specialmente, all’enorme produzione litografica realizzata da sé sul grande torchio ottocentesco (esso medesimo un capolavoro) con l’aiuto amorevole ed esperto della moglie Maria Grazia, “Megy”.
Arrischiando qualche ripetizione, concludo chiedendo agli amanti dell’arte e ai critici di riconoscere in Dady Orsi un artista sincero, per tale virtù difficilmente eguagliabile da altri. Egli non ha mai temuto i riferimenti storici e attuali, né di dichiarare l’amore per specifiche opere sia del passato sia della modernità. Scopriva embrioni dotati di forze e forme compresse che da pittore-ricercatore voleva e riusciva a far dispiegare in un campo di significati del tutto suoi, totalmente liberi da fraintendimenti. Da Orsi, per l’accuratezza posta (imposta) nei lavori traspare come un sentimento di umiltà, che dopotutto riconosce i debiti. Ma presto essa si eleva per approdare al piano dove si estende la reductio ad unum del ricco e differenziato patrimonio di relazioni, fra desideri e rimpianti, fra destrezza e limiti invalicabili. Paesaggi, scene di interni, corpi femminili, still-life…, su tela su carta su vetro su muri, soggetti e maniera sottoposti all’unificante efficienza dei diversi strumenti impiegati «da maestro».
Niente risulta escluso dalla conquista d’arte grazie a quel processo veritiero, mentre insorge una costante volontà di sperimentare ancora, di non fermarsi per sempre a una meta, ma di proseguire il cammino come uno schubertiano wanderer.
Scritto in occasione del primo anniverssario dalla scomparsa dell’artista.


- Cosma orsi con scultura ready made di Dady Orsi (1981) ©Studio Emilio Colella
- Dady Orsi e Megy Bassi (1979-80) cuscino con scena erotica
Lodovico Meneghetti 2004
«lo spazio naturale»: una riconsiderazione 2019

- Dady Orsi (1984) Giardino – Galleria Schubert
Questo tema, divenuto in seguito il titolo di una serie di quadri, poi di una mostra alla Galleria Schubert, si impose attraverso le conversazioni che avvenivano spesso alla Costella dove non mancavano visioni, percezioni e stimoli per così dire naturalistici. Anche se di natura intatta non c’era nulla (come non ce n’è da nessuna parte), dominava la folta presenza di vecchi ulivi che risalivano la collina a balze (sostenute da muri di pietre a secco) dal cortiletto impervio della mia casa opposto al mare. Proposi a Dady di trasformare la realtà in cui cercavamo di immedesimarci (stare/essere fra i tronchi e sotto le chiome delle piante) in composizioni di masse e segni a tratto forti, né geometrico-astratte né apertamente esplicative. Avrebbe potuto impiegare qualsiasi mezzo, eppure Dady scelse il più semplice, i pastelli. I colori sarebbero come scaturiti dalle dita (di un esperto colorista come lui) quasi da soli, coerenti al paesaggio. Non c’erano fratture nelle calme sensazioni aleggianti fra gli ulivi. Forse potevamo pensare a matasse di lana multicolori.
Guardo i celebri passaggi di Mondrian dal dipinto Alberi (ante 1908), attraverso diverse deformazioni fra le quali la prima Albero argentato (1911), fino all’astrazione di Composizione ovale (1914) con colori chiari, da cui, con altre riduzioni vicine all’ambito di Klee egli ci conduce, in pieno De Stijl, ai quadri strutturati su inflessibili barre nere incrociantesi secondo angoli retti (Composizione, 1921). É fra queste che rilucono le ampie zone di colori netti, pieni, puri. Orsi era lontanissimo dall’astrattismo, che tuttavia secondo la dimostrazione di Mondrian proviene dalla natura (del resto, cosa non ne proviene?): la settima tappa, Composizione ovale (alberi) del 1913, un insieme fittissimo di righe ad andamento contorto, fili e filini che si affollano in una matassa, non posso assumerlo a fianco degli Spazi naturali di Orsi? I collegamenti, lo sappiamo, in qualsiasi esame di realtà o in qualsiasi dissertazione spuntano come funghi. «Tutto si tiene» è una locuzione comoda, sembra diventata la filosofia interpretative del mondo. Non ci narrano da decenni i soloni pazzi dell’economia di globalizzazione obbligata?
Qui siamo sul terreno dell’arte, evitiamo le forzature, le cose «che si tengono» le sentiamo in un ascolto attento della musica silenziosa delle forme create dall’artista. Se prima ho cercato (trovandolo?) un rapporto tra le matasse intrise di segni a tratto e un’idea d’albero residuo nel processo di trasformazione verso l’astrattezza, ora, retrocedendo nei ricordi mi vedo nell’uliveto insieme a Dady che, seduto su un seggiolino pieghevole, dipinge dal vero. Con i materiali preferiti, inchiostri corretti da tempera e acquarello poco diluito, e la nota rapidità d’esecuzione ottiene due figurazioni dinamiche; le piante sembrano vive, come frustate dal vento che non c’è. Le metto a confronto con Albero argentato di Mondrian: stupefacente la parentela, da noi ignorata in quel momento, anche se il quadro Mondrian è quasi in bianco e nero.



- Piet Mondrian (1908) Alberi
- Piet Mondrian (1913) Composizione ovale con alberi
- Piet Mondrian (1911) Albero Grigio


- Dady Orsi (1984) Paesaggio – Galleria Schubert
- Dady Orsi (1984) Paesaggio – Galleria Schubert
Nel 1985 (anno degli uliveti), quattro anni prima degli Spazi naturali, l’espressione di Orsi apparteneva già alla dialettica tra ricezione del paesaggio e altri soggetti. D’altronde, a Bonassola il mare e la costa vista dal mare allargavano le occasioni quasi all’infinito.
L’esposizione alla Galleria Schubert conterà altri anni di prove in questo senso e sancirà la sua vocazione a interpretare l’intera realtà che lo circonda, dalle persone alle cose e allo spazio aperto.
(La passione per i paesaggi di Matisse non fu che una piccola parte di una sensibilità dovuta a voler/dover conoscere le arti nella massima profondità storica. Lo stesso motivo di ogni autore che voglia offrire al mondo il meglio di sé). Il capolavoro, se raggiunto, detiene un’enorme forza unitaria, radunante a sé le differenze di tutte le prove tentate, riuscite o fallite, una forza da proiettare nel futuro.