Miro Silvera

Miro Silvera

Vita Sospesa

  1. Dady Orsi, 1994, Natura Morta

Comunemente definite “nature morte”, le raffigurazioni di alcune scarne cose del vivere riunite da Dady Orsi lungo il corso di anni fatti di sguardi scrutatori passati pennellando con infinita pazienza la tela tesa, si sono sedimentate e rapprese attraversando il vetro del presente per diventare perenni, appendibili rappresentazioni di vita sospesa. Come nel trompe- l’oeil che da decenni il nostro moderno eppure antico pittore si diverte a comporre disegnando cartigli e farfalle, questi suoi progetti di fregi, con piatti e frutti in bilico, questi suoi vetri dipinti con mandolini negli antichi ovali hanno acquistato con gli anni la patina di piccoli classici, oggetti di consolazione per il nostro frenetico vivere, icone da contemplare in pause di ristoro dell’occhio e dello spirito. Dipinti con tempere composte da terre naturali conservate in boccette, i quadri di questo artista che ci è caro, eternamente giovane perché amante del giocare e del cambiare sovente di registro, ci regalano questo autunno il dono di una lieve poesia su cui è bene posarsi e riflettere.

In occasione della mostra “Nature Morte” – Galleria Blanchaert e Arosio 1995

Dady Orsi: Prima del dopo

2019

  1. 1932 Casa Orsi – Lido di Venezia

Ciascuno di noi dovrebbe imparare a cercare il senso più intimo della propria vita sapendosi raccontare, se non al mondo intero almeno alla cerchia degli amici incontrati e amati. Questo si può fare con le parole, alla ricerca delle memorie, oppure ricapitolando i prodotti della propria arte. Ricordando Dady Orsi, ho immaginato di ripercorrere velocemente il corso della sua fertile vita, che trasformava il mondo in immagini, creando con i fantastici materiali a disposizione una vera autobiografia compositiva.

Dady, perdonami se ora passo al tu, perché a volte mi sembra di avere il dono di captare i sussurri delle anime, e così è anche adesso del tuo vivere e della tua arte. Devo questa grande tua riscoperta a Cosma, tuo figlio. Lì percorro i tuoi passi nel mondo: tutti a ben vedere segnati dal tema dell’acqua.

Sei nato a Genova, ma vissuto a Venezia dove amavi guardare la grande pittura nelle chiese.

Tu avevi una sorella speciale, Vera, poi da sposata Altichieri, che amava le tue suggestioni figurative, e avevi altri due fratelli: Sandro contagiato dal bello degli oggetti e dei quadri antichi facendone una professione, e Massimo, il primogenito. Crescendo, quanti incontri si sono poi intrecciati quando da giovane sei giunto a Milano, città a quel tempo ricca di acque, navigli e martesane, nonché di chiuse leonardesche, sentieri liquidi non ancora diventati strade asfaltate per fare largo al progresso.

Mi raccontavi che avevi frequentato l’Accademia di Brera e la bottega di Pietro Chiesa, direttore di Fontana Arte, dove hai appreso la maestria dell’esecuzione delle vetrate dipinte. Mi sono allora allacciato ad altri interiori fili che mi legano a te ricordando mia zia Fortunée, che partendo in lacrime per il Brasile mi aveva regalato negli anni Settanta, per suo ricordo un tavolo tondo di Fontana Arte. Pochi anni dopo scoprirò tutto un ambiente di vetrate dipinte sotto la direzione di Pietro Chiesa nel palazzetto anni 30 del creatore di moda (casa e bottega) Niki Chini che aveva per molti anni tenuto un negozio di rara eleganza in via Manzoni. Ancora ricordo quelle vetrine incorniciate di marmo nero, con l’esposizione di guanti e profumi, e oggetti di lusso.

Quello straordinario palazzetto dietro alla RAI di corso Sempione, lo immagino ancora oggi con emozione, ma allora non avevo avuto il coraggio di smontare e portarmi via quelle meravigliose vetrate esibite ai lati di un enorme tavolo di marmo nero del Belgio, offrendo a quel salone una luce da acquario molto speciale. Del resto, bastava salire ai piani di sopra per scoprire sul terrazzo di quella villa una piscina, all’epoca un lusso davvero singolare per Milano.

Tu stesso, tra il 1950 e il 1955, con i tuoi lavori ritornerai al tema dell’acqua. Ma non sarà più il vetro stesso, acqua ferma solidificata, stavolta toccherà a sculture di legno corrose dalle correnti, pezzi di natura che chiamerai “alluvionali” perché strappate alle furie degli elementi, nobilitate e medicate anche dall’intervento del colore.

Qui non devo dimenticare il significato avuto nella tua vita delle estati marine trascorse per anni a Bonassola, nelle acque in cui era diventato un rito immergersi. Ma a Molinetti, ultima frazione di Recco, l’altro tuo fratello maggiore Massimo, perderà in quel mare ligure suo nipote, il piccolo Matteo e la moglie Luciana, e tu ne sarai drammaticamente testimone diretto.

Quell’anno il mare ha saputo essere crudele come spesso lo è, e ti sei accorto che la vita ci sporca, anche. Ed è ciò che ci accade quando siamo distratti dalle rituali occupazioni del vivere la vita sempre con i medesimi gesti. Sono le opere a rimanere poi in vita, muto capitale dell’avanzare della vita che si riperpetua nel ricoprirsi di foglie nuove, testimoni che si accatastano nelle stanze di Barbablù, uscendone solo di tanto in tanto per esibirsi come racconto di vite passate. Ed ecco che improvvisamente le opere sono pezzi di noi, quarti appesi nella bellezza! È allora che ricordiamo, riallacciamo, valutiamo: risistemiamo tutto.

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  1. Dady Orsi, 1944, bozzetto per vetrata
  1. Dady Orsi, 1950, saltimbanco
  1. Dady Orsi, 1982, Nuotatore

Un’altra coincidenza mi riconduce a te, Dady. Tu le tue opere le hai esposte anche nel 1981, alla Galleria dei Bibliofili di Piero Fornasetti. Quella galleria la conoscevo bene, avendola frequentata prima, quando era di Vanni Scheiwiller, l’editore che aveva pubblicato Liber Singularis, il mio primo libro di poesie. Per la tua esposizione intitolata Nuda in 12 Quadri Piero aveva commissionato la presentazione all’amico critico e poeta Raffaele Carrieri (quanti ricordi mi legano a Raffaele e alla sua bella casa di via Borgonuovo 15 piena di ritratti e di libri rari generosamente regalava!). Appena pochi anni prima quei due eccezionali dioscuri mi avevano regalato la loro amicizia, e quell’esposizione del gennaio 1981 per me ne è stato il sigillo. Magico Fornasetti e magico poeta Raffaele davanti ai tuoi dipinti. E quante vivaci mostre in quella galleria di via Morone 6.

Così grazie anche a voi Raffaele, Piero e a Dady Milano ancora oggi preserva memorie e cultura.

Caro Dady, il tuo grande affresco al Ristorante Savini di Galleria Vittorio Emanuele e i quadri ora riordinati stanno diventando segni di ricordanza, pietre d’inciampo. È la memoria a risvegliare le opere e chi le ha create e le custodisce qua a Milano per future mostre e monografie, anche oggi che si parla di scoperchiare i navigli per ridare acqua alla città, a una nuova città dove tutto scorre e gli artisti rimangono fedeli al loro credo.

Dady, riscoprire l’acqua a Milano! Ma ci pensi?

Lettera postuma

2020

  1. Dady Orsi, 1976, Marina

Dady Caro,

la memoria è un asse portante della vita. Ha ragione Alessandro Piperno, quando, parlando di Proust e della memoria, scrive che “basterà un semplice trasloco a farti capire che la facoltà della tua mente di distruggere è assai più potente e micidiale di quella di trattenere!” Già, il tempo non dà scampo …

Ma non eri tu Dady, dalla tua sfera di artista a dirmi che nulla va sprecato, che l’arte permane, e le figure non si cancellano mai come sabbia (o quasi!)? Perché le parole sfarinano nel nulla, mentre le arti magiche della pittura rimangono. La tua arte è ancora presente qui ed ora, ad indicare una via maestra, la tua via.

Uomo di mare approdato alla terraferma. Sei nato sul mare; Genova, grande porto aperto verso il mondo intero. Senza saperlo, hai compiuto i tuoi passi nel mondo come un Ulisse in cerca di avventure, approdando ora qua ora là, facendoti incantare dagli approdi e dalle sirene dell’invenzione pittorica. Ti sei una notte addormentato sul Mar Ligure; il mattino seguente percorrevi il dedalo dei canali veneziani che hai percorso fino all’adolescenza, legandoti al sortilegio di quell’antica città, culla di grandi pittori.

Del resto, anche tua madre Beatrice era pittrice; e fu lei a introdurti nella bottega del suo grande amico Guido Cadorin, dove tu guardavi affascinato il mescolarsi dei colori che si scioglievano ora con l’acqua, ora con l’olio, trasformandosi in emozionanti figure fantastiche. Più crescevi e più amavi guardare la grande pittura nelle chiese veneziane. Cadorin ti fu maestro in terra veneta tra acque e terre ferme. Lì nella sua bottega i colori continuavano a fiorire nella tua mente come fantasie da mettere quanto prima sulla tela.

E poi, la terraferma.

Non fu per caso che approdato a Milano nei primi anni Trenta hai frequentato l’Accademia di Brera, sotto il magistero di Aldo Carpi e appreso la maestria dell’esecuzione delle vetrate dipinte sotto la guida di Pietro Chiesa, direttore di Fontana Arte. Fu da lì in poi che cominciasti a tessere la tua tela, fatta di amicizie, affetti, ideali, arte, letteratura. Se alla fine ci siamo incrociati, molto è dovuto a quel crogiolo di umanità che tu frequentavi allora e che io incontrerò qualche tempo dopo. Fornasetti, Treccani, Grassi, Montale, Carrieri …

È stata Milano il palcoscenico sul quale i nostri passi si incoceranno. Città «dotta e meditativa […] tutta pietra in apparenza e dura», ma in realtà «morbida di giardini “interni”», così il tuo amico Alberto Savinio la descriveva nel suo Ascolta il tuo cuore città, note di Taccuino. Da raffinato narratore qual era, Savino mi ricorda l’energia che da quei luoghi germinava. Girovagando a guerra finita per le rovine i Milano, si chiedeva «Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste invece sono formicolante di gioia. Dovrei mulinare pensieri di morte, e invece pensieri di vita mi battono in fronte, come il soffio del più puro e radioso mattino. Perché? Sento che da questa morte nascerà nuova vita. Sento che da queste rovine sorgerà una città più forte, più ricca, più bella. […] Sotto il portone del numero 30 di via Brera, questa insegna Impresa pulizia Speranza. Che aggiungere? È detto tutto».

Dady caro, ovunque ti spingesse la tua flanerie, il tuo girovagare per la «più romantica delle città italiane» era immancabilmente assistito dalla tua compagna più fedele, l’ironia, Quella tua «maniera sottile d’insinuarsi nel segreto delle cose», che poi tu riversavi nella tua arte. La tua era un’ironia riservata, senza disdegnare la mondanità pacata, il tuo fare artistico appartato dal clamore della fama.

  1. Beatrice Beuf, 1930, ritratto del padre (Tito Beuf)
  1. Emilio Colella, 1975, l’antro della casa
  2. Dady Orsi, 1995, Natura Morta, galleria Jean Blanchaert

Ho cercato il tuo nome nella mostra milanese Addio Anni ’70 Arte a Milano 1969 – 1980, allestita a Palazzo Reale. Ma tu, persino in quell’occasione dove mai ti eri cancellato? Con grande delicatezza tu preferivi frequentare i poeti della penna come Raffaele Carrieri, e quelli della invenzione decorativa come Piero Fornasetti. Ebbene: io personalmente rimango sbigottito dalla tua non-presenza, dall’assenza della tua opera narrata solo per sé stessa quasi sia avvenuta in una francescana clausura.

Se il tempo non da scampo, il destino a volte qualche piacevole scherzo si concede di farlo. Sono qui con la tua famiglia a ripercorrere la tua opera. Un’esplorazione nei nascondigli di un luogo consegnato al suo privato sé, ma non costretto da alcun evento, se non nobilmente fiero, scuro nel tratto e nel disegno e nel colore. Ecco che cosa c’era nell’antro domestico: un ciclo di visioni che, viste oggi, recano l’urgenza del voler narrare con un vocabolario pittorico personalissimo, che mi ha personalmente coinvolto, gradino dopo gradino, in un’avventura dell’arte che ha del prodigioso. In questo viaggio, tu Dady, mi sveli finalmente la tua grammatica non presuntuosa.

E sono orgoglioso di aver presentato i tuoi lavori con brevi note in occasione della mostra apparecchiata nella galleria di Jean Blanchaert nel 1995. Ricordo quanto Silvia, la madre di Jean, che aveva l’occhio lungo, avesse appoggiato e moltiplicato gli inviti a recarsi in galleria; e oggi voglio pensare che dal suo paradiso personale continui ad apprezzarti. Ben sapeva Silvia che quella francescana clausura ti aveva preservato da quell’arte claudicante che approda con affanno ai nuovi percorsi o da quella che arriva con il fiato corto alle non-gallerie.

Ancora una volta, Dady caro, ho constatato che il tempo, nel suo corso, sembra non dare scampo in assoluto, affermando però che il temporaneo oblio è un passaporto che solo i grandi artisti come te hanno il diritto di avere. Ecco, oggi se vuoi, ti ho ritrovato nella discrezione dei grandi e ancora ti riconosco nel tuo pudore.